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Bigalassia - La Tribuna

 
 
Codice:10067      
 
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N. Volume:   22
Titolo:   Il giudizio di Eva - C'era una volta un mondo
Autore:   Edgar PANGBORN, Walter Michael MILLER jr. e Autori VARI
   Traduzione: Roberta RAMBELLI (ps. di Jole RAMBELLI) e Maria Teresa GUASTI
 
Data Pubbl.:   1 Giugno 1974 ISBN:    non presente
Titolo e/o Data Orig.:   The Judgement of Eve, 1966
Note:   Supplemento a Galassia n.198
 
Genere:   Libri->Fantascienza
 
Categoria:   FANTASTICO Rilegatura:   Brossura
Tipologia:   Principali Dimensioni:   124 x 184
Contenuto:   Antologia  N. pagine:   318
 
 
  Ultima modifica scheda: victory 22/06/2023-11:57:40
 
   
 

 
 
Il giudizio di Eva
Nel panorama multiforme e multicolore della science fiction, Edgar Pangborn occupa una posizione particolare, di confine. Insieme a pochissimi altri, tra i quali è doveroso citare John Christopher e Kurt Vonnegut, Pangborn non si è mai preoccupato di centrare la propria opera sui fatti, ma sull'influenza che questi fatti ipotetici hanno sopra la natura umana. Ciò che lo interessa è il divenire di una o più creature umane attraverso il divenire delle cose, che si risolve in una verifica allegorica di realtà immanenti. Se l'allegoria, secondo la migliore tradizione medievale, comporta come fase necessaria una “ricerca", allora mai come in Pangborn merita la sua qualifica di allegoria moderna. La ricerca compiuta dai personaggi di Pangborn è sempre duplice: fisica, realizzata attraverso luoghi e dimensioni inesplorati ed enigmatici, e spirituale, realizzata attraverso l'azione e soprattutto attraverso il pensiero. Il risultato è sempre l'acquisizione, da parte degli esseri umani, di una migliore conoscenza di se stessi, e di una profonda libertà interiore. Come i lettori di fantascienza sanno benissimo da molti anni, e come la maggioranza del pubblico non ha ancora imparato, siamo letteralmente ad anni-luce di distanza dall'accezione comune della parola “fantascienza", che per troppi è ancora sinonimo di puerili, balorde avventure tra mostri extraterrestri o spettri indigeni. Aggiungiamo a questa tematica particolare una scrittura deliziosa, apparentemente caotica fino all'incoerenza, un ribollire di immagini afferrate al volo, inchiodate sulla carta e subito abbandonate per inseguire una visione più nuova e più splendente.; una sete immensa, indomabile di libertà, il desiderio di frantumare i ceppi di ogni convenzione e di ogni costruzione tradizionale: questo è Edgar Pangborn. In Italia, Pangborn venne introdotto quasi venti anni fa, dalla traduzione d'una sua operina fantasiosa e squisita, ‘Angel's Egg', che già nell'originale era stata vittima di uno stolido massacro, poiché il direttore della rivista in cui apparve rimase profondamente scandalizzato delle audacie, puramente stilistiche e sintattiche, che Pangborn si era concesso, e in nome d'un pedestre buon senso aveva sistematicamente falcidiato le espressioni più aeree e più incantevoli, sostituendole con altre secondo lui più comprensibili al pubblico. La tendenza a conferire al povero pubblico una patente di idiozia che non merita costituisce, in tutto il mondo, parte della concezione paternalistica dei dispensatori di cultura ad ogni livello. Oltre a un complicato, avventuroso ma tutt'altro che disprezzabile ‘Ad ovest del sole', passato del tutto inosservato tra noi, di Pangborn è apparsa in Italia l'opera di più vasto respiro, ‘Davy l'eretico'. Con essa, ‘Il giudizio di Eva' ha numerosissimi punti di contatto, ideologici e stilistici se non strutturali. Non mi sembra il caso di condizionare il lettore con una esegesi di questo romanzo, fantastico e realista, intimista e avventuroso insieme; ‘Il giudizio di Eva' è un mondo autentico, labile e concreto, che ogni lettore deve scoprire da sé: anche perché ogni lettore potrà riconoscersi in uno dei tre protagonisti, Kenneth, Ethan o Claudius, e attraverso le loro vicende e i loro pensieri potrà imparare a capire meglio se stesso.

C'era una volta un mondo
Sono quarantaquattro anni che Amazing Stories ha creato ufficialmente il “genere science-fiction". Ai posteri l'ardua sentenza se sia stato un bene o un male, per la science-fiction, affrontare il giudizio del grande pubblico sotto forma di rivista tascabile (e ancora oggi, per lo snobismo di molta critica, questo piccolo formato le costa una qualifica di sotto-genere letterario). Quello che più ci interessa è invece il fatto che, indubbiamente, la nascita delle riviste di science-fiction ha consentito alla stessa science-fiction di riconoscersi, e a una foltissima schiera di scrittori di eccezionale validità di trovare la loro naturale capacità di espressione e di imporsi. Di imporsi, appunto. Perché il moltiplicarsi della produzione fantascientifica non soltanto è stato il più efficace “termometro" del nostro tempo, con l'agitarsi delle nuove idee e lo studio sempre più approfondito dei riflessi psicologici e sociali del progresso scientifico nella vita dell'uomo, dalle epopee dell'esplorazione spaziale all'esistenza quotidiana, ma ha finito col permeare di sé buona parte della stessa letteratura “maggiore", il linguaggio e il costume. Questa antologia di racconti è un doveroso omaggio ad Amazing. Una selezione accuratamente dosata di racconti recenti e di “classici", scelti questi ultimi, nonostante la “datazione", per un loro significato profondo e duraturo. Abbiamo, quindi problemi attuali e di sempre, uomini, macchine, civiltà terrestri e aliene e mondi multidimensionali. E un fascino inestinguibile. Apre la rassegna “Morte di un astronauta" di Walter Miller jr., il racconto di un'agonia eroica e struggente, l'epopea spaziale rivissuta in chiave interiore, sullo sfondo dell'incomprensione tra le generazioni con lo stabilirsi di un nuovo “sta— tus" sociale pronto a banalizzare fulmineamente l'avventura. Quindi, un breve apologo di Ray Russell, “Amici per la pelle", l'inquietante e originale squarcio cronistico d'una civiltà anatomica imminente. Poi, una lunga novella di Theodore Sturgeon, “La rupe che cammina", che riprende i tipici motivi di Simak della solidarietà e dell'amicizia tra gli uomini, ma con molti spunti originali e un'ambientazione affascinante. Con David Bunch (“Diario sentimentale d'uno spazzino") si ritorna, sia pure brevemente, alla crudeltà: il mondo degli adulti è dipinto con tinte paradossali, ma l'allegoria è straordinariamente efficace. Abbiamo poi due narrazioni contrapposte, “I figli dell'uomo", di Grey Benford, e “Sogno di vittoria" di Algis Budrys. In ambedue i racconti, esseri umani, naturali o artificiali, vengono acquisiti, sia pure in tempi e situazioni diversissime, alla intelligenza e alla dignità, e quindi ricacciati nel nulla. La malinconia d'una silenziosa estinzione, o la ribellione a una condizione insopportabile di ripulsa e un anelito a una paternità negata, due opere ben degne di allinearsi nel “mainstream" letterario. “L'aggressore", di John Sladek, è un breve racconto dal ritmo galoppante, d'una ineffabile cattiveria non soltanto nei confronti del protagonista: una sorta di serpente multidimensionale che si morde la coda facendo sberleffi al lettore. E infine, “Il sipario scarlatto", di Richard Matheson, un racconto giustamente famoso per la delicata perfezione con cui sono descritti i sentimenti e le relazioni umane, in un giorno supremo per l'umanità. Un'abilità narrativa, una vivida rappresentazione, una poesia, che ne fanno un capolavoro indiscusso.