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Ormai la fama di Dario Tonani nel mondo della Science Fiction è così universalmente riconosciuta che rischia di passare come un normale e consueto evento la pubblicazione di un suo romanzo nella collana da libreria di narrativa di genere più importante di Mondadori, Oscar Fantastica. Tra l'altro in una edizione lussuosa, rilegata e con sovraccoperta splendidamente illustrata da Franco Brambilla.
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Certamente se questo tipo di eventi evolvano davvero in consuetudine e normalità è un bene, innanzitutto per Dario e in second'ordine per tutta la FS Italiana.
Bene quindi che sia "Normale" ma è giusto affermarne l'importanza e riconoscergli la massima attenzione, a maggior ragione qui su UraniaMania dove Dario Tonani è nella sua casa.
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Per cui chi meglio di lui può essere chiamato a dirci come si è arrivati a "Il trentunesimo Giorno"
“Il trentunesimo giorno” in tre parole
UM: Dalle dune di deserti sconfinati a una terra zuppa d’acqua, dalla siccità ai nubifragi, dalla sete insaziabile alla tortura del waterboarding… Più di dieci anni di Mondo9, e adesso Tonani che ci combini?
Dario: Adesso è il pianto disperato di un pianeta al collasso a muovere i meccanismi di una storia, che nei Ringraziamenti in calce al romanzo definisco “nata da una tempesta”.
Ma lasciatemi riportare le parole esatte. “Questo romanzo è nato da una tempesta. E dagli scuri di una mansarda-studio che mi lasciavano inquadrare solo due scacchi di cielo; nord e sud, fronte nuvoloso e ultimi raggi di sole. A mia scelta. «Hai visto quelle sagome che galleggiano lassù?». Passare da una finestra all’altra e cambiare prospettiva aiuta. Placa i tormenti, dona entusiasmo, arricchisce, rigenera. Vale per gli psicologi che elogiano le virtù del “pensiero laterale” e di quello “divergente”, vale a maggior ragione per gli scrittori che dall’osservazione (della realtà e di se stessi) ricavano i punti di riferimento di cui farsi beffe, alla ricerca invece di quelli di “ribaltamento”, senz’altro più produttivi. A volte mutare prospettiva è consapevole, altre no: i casi della vita ci pongono di fronte a burrasche furibonde e improvvise, a raffiche di vento impetuose (e cambiare finestra non si può!). E allora… giù di pensiero laterale o divergente! Si abbandona il sentiero battuto fino al giorno prima e si procede per la via obliqua, nell’erba alta, magari a piedi scalzi”.
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Questa la genesi, le motivazioni sono decisamente più personali e - se me lo concedete - più profonde: uscivamo da un devastante lockdown, di cui “Il trentunesimo giorno” porta tracce evidenti racchiuse nella prima delle tre parole che caratterizzano la storia: “perdita”, “sopravvivenza”, “riscatto”. E il sottoscritto stava oltretutto vivendo un periodo molto complicato.
Perdita, appunto. La ritrovate nell’idea stessa che sta alla base del romanzo: i nostri cari volano in cielo, sfilandosi dall’ultimo abbraccio e lasciandoci senza un corpo su cui piangere. Il trapasso e la morte stessa subiscono una sorta di ribaltamento che colloca la dipartita sopra le nostre teste, in balia di qualcosa d’incontrollabile al cospetto del quale non possiamo né metterci in ginocchio né portare un fiore: venti e correnti d’alta quota. I nostri affetti non più sotto metri di terra, ma dispersi, lontani, irraggiungibili… C’è qualcosa che riconoscete nel nostro recente passato? Un dramma collettivo che diventa intimo e privato nel momento in cui ci toglie il conforto di un abbraccio, di un addio, di una mano trattenuta fino all’ultimo respiro.
Sopravvivenza. Continua, cocciuta, dolorosa. Ci entra nelle case tutti i giorni, da ogni angolo del globo, ma - su scala ridotta - la sperimentiamo quasi quotidianamente anche sulla nostra pelle, mossa dai drammi più diversi: privazione, violenza, disperazione, solitudine… E proprio due “assortite” solitudini che hanno perso tutto e quindi non hanno nulla da scambiarsi - Evelyne e Alvaro - decidono di fare fronte comune e intraprendere un viaggio nella speranza, l’una sotto l’ala protettiva dell’altro. Ma anche sopravvivenza del pianeta, devastato dall’incuria e dalle logiche della crescita incontrollata e del profitto; temi, quelli del cambiamento climatico e della sostenibilità ambientale, ai quali chi mi conosce sa che sono da sempre molto sensibile.
Obiettivo, Riscatto: la tanta agognata seconda possibilità che la cronaca di questi ultimi anni ci ha insegnato a chiamare con una parola forbita ma spigolosa: “resilienza”. Che nel buonsenso comune non significa altro che… tenere botta.
“Il trentunesimo giorno” è in fondo queste tre parole, ripetute in un mantra ossessivo e amorevolmente cucite nella fodera di una storia che si dipana da Milano a Vienna, facendo però un virtuale giro del mondo. Ma anche quello del cielo e delle sue nubi.
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E ora la domanda che mi sento fare a ogni piè sospinto: è davvero uno stand-alone, Tonani?
Vengo da oltre dieci anni di Mondo9, quella che per molti è stata la mia “confort zone”, una prigione d’avorio, una gabbia, un pozzo profondissimo dentro il quale temevano mi bevessi tutta la mia creatività. Macché, niente di più falso! Sì, “Il trentunesimo giorno” è uno stand-alone: la fine, per chi l’ha letto, chiude un cerchio.
E a meno di ricalcare la linea chiusa e fare un altro giro di giostra, la storia termina lì, coi tre puntini di sospensione come mio solito. Poi i cadaveri fluttuanti mi hanno insegnato che basta un colpo di vento, un fulmine, una turbolenza d’alta quota perché l’orbita non si chiuda perfettamente in una circonferenza. Ma diventi un gomitolo di traiettorie. Ora però col filo di quel gomitolo non ricamateci troppo però. E neppure coi bottoni, pardon… i puntini di sospensione.
Fuori c’è il sole e a giudicare dal cielo senza nuvole non c’è nessun motivo per pensare che si metta a piovere di nuovo…
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Dario Tonani
Segrate, 17 settembre 2023
UM: Caro Dario, aka Cletus, grazie per averci così appassionatamente e intimamente descritto la genesi e il significato profondo del tuo romanzo Il trentunesimo giorno, romanzo a cui tutta UraniaMania augura di raggiungere più grandi e ambiti traguardi!